La posizione del proprietario dell'area consapevole

Sez. III, 22/11/2010, Sentenza n. 41020/2010

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

- sul ricorso proposto da  CC, quale legale rappresentante della XXX spa;
- avverso l'ordinanza emessa il 3 novembre 2009 dal tribunale del riesame di Napoli;
- udita nella udienza in camera di consiglio del 21 ottobre 2010 la relazione
- udito il Pubblico Ministero in persona Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
- udito il difensore;
Svolgimento del processo

Il tribunale del riesame di Napoli, con l'ordinanza in epigrafe, confermò il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP collegiale di Napoli in data 21.9.2009, avente ad oggetto un'area sita in Avellino di proprietà della spa XX in riferimento al reato di cui all'art.256 d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, essendo stato detto sito adibito a deposito incontrollato di rifiuti, costituiti in gran parte da materiali edili di risulta, oltre che da scarti metallici, pneumatici, prodotti farmaceutici, ed altro.
L'indagato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) nullità del decreto di sequestro per violazione dell'art.321, in relazione all'art.125, comma 3, cod. proc. pen. e vizio di motivazione sul punto.
Lamenta che il Tribunale del riesame non ha risposto al motivo di riesame con cui aveva eccepito che il Gip collegiale aveva omesso di esaminare una serie di elementi a favore della difesa, pur acquisiti nel procedimento. Sul punto il tribunale del riesame si è limitato ad affermare apoditticamente che il provvedimento del Gip aveva dato conto della sussistenza dei presupposti del provvedimento ablatorio.
2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'omessa valutazione in concreto del fumus del reato, in quanto il Tribunale del riesame si è limitato a verificare la configurabilità del reato su un piano di astrattezza senza valutare l'esistenza del fumus in concreto. Lamenta che il tribunale non ha motivato in particolare sulla mancata piena disponibilità dell'area da parte della XXX; sulla eccezione che i materiali erano stati depositati sul posto prima che la XXX acquistasse il terreno; sul contenzioso tuttora in corso con il curatore fallimentare perché l'area non era stata lasciata nella piena disponibilità della XXX. Nemmeno è stata esaminata l'eccezione che il reato non era configurabile nemmeno in astratto perché la giurisprudenza esclude la punibilità del proprietario di un terreno sul quale altri, senza una sua condotta attiva, abbiano depositato rifiuti o realizzato una discarica. Il tribunale ha anche omesso di rilevare che dalle stesse reali condizioni del terreno emergeva che si trattava all'evidenza di una area industriale semidismessa e non di area adibita a deposito materiali edili.
3)violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione in concreto del periculum in mora, dal momento che lo stesso tribunale del riesame ha dato atto che la spa XXX aveva dimostrato la piena disponibilità a procedere alla rimozione dei rifiuti ed al recupero del sito, aveva presentato un piano per i lavori di bonifica ed era in attesa della autorizzazione comunale.
4)violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancanza delle condizioni di applicabilità del sequestro preventivo perché il trasferimento del terreno dalla procedura concorsuale alla XXX aveva prodotto un autonomo titolo di proprietà, avulso dalle vicende inerenti ai precedenti proprietari, escludendo quindi qualsiasi rapporto di pertinenzialità tra l'area sequestrata e il reato precedentemente realizzato. Tutt'al più poteva essere emessa dal comune una ordinanza per la rimozione dei rifiuti.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.

 Innanzi tutto, il tribunale del riesame ha preliminarmente affermato che il suo sindacato non potrebbe investire la concreta fondatezza dell'accusa ma dovrebbe limitarsi alla verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzata dall'organo dell'accusa, sicché l'annullamento della misura cautelare sarebbe possibile solo laddove risulti ictu oculi la difformità tra fatto contestato e reato ipotizzato.
In altre parole, secondo il tribunale del riesame, la sussistenza del fumus dovrebbe essere accertata solo su un piano di astrattezza, nell'ambito delle indicazioni di fatto offerte dal pubblico ministero e sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati dall'accusa, che non potrebbero essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che andrebbero valutati così come proposti dal pubblico ministero.
Si tratta di affermazioni erronee sia perché, per disporre e mantenere la misura cautelare reale, con conseguente compromissione del diritto costituzionalmente tutelato, occorre che vi sia la prova del fumus del reato ipotizzato, sia perché il sindacato del tribunale del riesame non può limitarsi alla mera verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzata, ma deve appunto verificare la concreta sussistenza del fumus del reato e del periculum in mora.
Ed infatti, il diverso principio seguito dal tribunale del riesame, che pure a volte era stato affermato in passato da una parte della giurisprudenza sulla base di una non completa considerazione di una decisione delle Sezioni Unite (20.11.1996, n. 23/97, Bassi), è stato però disatteso innumerevoli volte dalla giurisprudenza più recente, alla quale questo Collegio aderisce, secondo cui il tribunale del riesame, per espletare il ruolo di garanzia dei diritti costituzionali che la legge gli demanda, non può avere riguardo solo alla astratta configurabilità del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., ex plurimis, Sez. I, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227.498; Sez. III, 16.3.2006 n. 17751; Sez. II, 23 marzo 2006, Cappello, m. 234197; Sez. III, 8.11.2006, Pulcini; Sez. III, 9 gennaio 2007, Sgadari; Sez. IV, 29.1.2007, 10979, Veronese, m. 236193; Sez. V, 15.7.2008, n. 37695, Cecchi, m. 241632; Sez. I, 11.5.2007, n. 21736, Citarella, m. 236474; Sez. IV, 21.5.2008, n. 23944, Di Fulvio, m. 240521; Sez. II, 2.10.2008, n. 2808/09, Bedino, m. 242650; Sez. III, 11.6.2009, Musico; Sez. III, 12.1.2010, Turco; Sez. III, 24.2.2010, Normando; Sez. III, 11.3.2010, D'Orazio; Sez. III, 20.5.2010, Bindi; Sez. III, 6.10.2010, Kronenberg-Widmer).
 Nella specie, quindi, il tribunale del riesame ha eluso il suo compito istituzionale di controllo «in concreto» del provvedimento impugnato, il che integra una violazione dell'obbligo di motivazione, nonché un rifiuto di provvedere, derivante da una erronea interpretazione delle proprie funzioni e dalla conseguente elusione del ruolo di garanzia caratterizzante la speciale istanza di secondo grado costituita dal riesame delle misure cautelari (cfr. Sez. II; 22.5.1997, n. 3513, Acampora, m. 208078).
Il tribunale del riesame ha infatti omesso di verificare «in concreto» la legittimità del provvedimento di sequestro e soprattutto di valutare gli elementi a discarico e le argomentazioni svolte dalla difesa, con le quali si era tra l'altro eccepito che era mancata la piena disponibilità dell'area sequestrata da parte della società XXX; che i materiali classificati come rifiuti erano stati collocati nel sito in epoca antecedente all'acquisto dell'area da parte della XXX; che vi era un contenzioso tuttora in corso con il curatore fallimentare, in quanto l'area non era stata rilasciata nella piena disponibilità della spa XXX.
Il tribunale del riesame non poteva astenersi dal valutare queste eccezioni difensive nemmeno ai fini di una valutazione astratta sulla sussistenza del fumus, perché, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, la consapevolezza da parte del proprietario del fondo dell'abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi non è sufficiente ad integrare il concorso nel reato di cui all'art. 256, commi 2 o 3, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (abbandono o deposito incontrollato di rifiuti e gestione di discarica abusiva), atteso che la condotta omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo dell'art. 40 c.p., ovvero sussista l'obbligo giuridico di impedire l'evento (Sez. III, 1 ° luglio 2002, Ponzio, m. 222.420). Analogamente, si è affermato che destinatario della norma penale che punisce la realizzazione e gestione di discarica abusiva è il gestore dell'impianto di raccolta e non il proprietario del terreno sul quale si attua lo smaltimento di rifiuti speciali non autorizzato, il quale può concorrere come estraneo nel reato proprio commesso dal gestore solo quando il concorso esterno materiale (cogestione di fatto) o morale (istigazione, rafforzamento, agevolazione) si realizzi con condotta commissiva, ovvero con condotta omissiva - in linea teorica - ma sempre che il «non agere» si innesti in uno specifico obbligo giuridico di impedire l'evento (Sez. I, 17 novembre 1995, Insinna, m. 203332), e che anche in materia ambientale un dato comportamento omissivo acquista il connotato dell'antigiuridicità solamente in funzione di una norma che imponga al soggetto di attivarsi per impedire l'evento naturalistico di lesione dell'interesse tutelato (nella specie si è escluso il reato nella condotta del proprietario di un terreno che aveva omesso di impedire che sul proprio fondo terzi realizzassero una discarica) (Sez. III, 18 dicembre 1991, Sacchetto, m. 189149).
I reati in questione non possono quindi consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza. Non è sufficiente, pertanto, ad integrare il reato di cui alla contestazione la mera consapevolezza da parte del possessore di un fondo del fenomeno di abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi senza che risulti accertato il concorso, a qualsiasi titolo, del predetto possessore del fondo con gli autori del fatto. Nel nostro sistema penale, infatti, una condotta omissiva può dar luogo a responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen., e cioè quando il soggetto abbia l'obbligo giuridico di impedire l'evento (Sez. F., 13.8.2004, n. 44274, Preziosi, m. 230173).
Sulla base di questi principi si è affermato che non dà luogo alla configurabilità dei reati in questione la condotta di chi, «avendo la disponibilità di un'area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti, si limiti a non attivarsi perché questi ultimi vengano rimossi» (Sez. III, 3.10.1997, n. 8944, Gangemi, m. 208624); e che «la compravendita di un terreno sul quale erano già stati raccolti dal venditore rifiuti nocivi non può integrare, a carico del compratore, il reato in questione, neanche sotto il profilo che, trattandosi di reato permanente, esso debba essere addebitato a colui che, pur non essendo concorso nell'attività di accumulazione di rifiuti, abbia acquistato la proprietà del terreno ove gli stessi si trovino» (Sez. I, 4.3.1999, n. 7241, Pirani, m. 213699).
Il tribunale del riesame ha pertanto omesso di valutare e ricostruire l'esatta cornice fattuale della vicenda, ed in particolare di esaminare le eccezioni difensive relative all'assunto che l'area in questione era stata acquistata poco prima del sequestro; che sulla stessa esisteva un contenzioso col curatore; che si trattava di una area industriale dismessa e non già di area adibita a deposito di materiale edile; che la totalità dei rifiuti erano riconducibili alle attività lavorative industriali svolte in loco o erano presenti sull'area da tempo anteriore all'acquisto, come emergeva dal loro stato.
La motivazione dell’ordinanza impugnata è assente, o meramente apparente, anche in ordine alla sussistenza in concreto del periculum in mora.
L'ordinanza innanzitutto afferma che è irrilevante la questione sulla dedotta buona fede del ricorrente perché la misura cautelare reale colpisce il bene a prescindere da considerazioni di natura soggettiva relative all'autore del reato.
La motivazione è apparente perché se l'eventuale buona fede dell'autore materiale del reato può essere irrilevante ai fini della misura cautelare, essa invece è sicuramente rilevante ai fini di valutare il concreto pericolo di reiterazione della condotta criminosa quando - come sostiene la difesa - essa è invocata da chi abbia acquistato il terreno sul quale già esistevano i rifiuti e non abbia concorso con gli autori del reato.
L'ordinanza impugnata afferma anche che deve escludersi la buona fede dell'odierno ricorrente in considerazione del degrado dell'area, dell'accumulo incontrollato di rifiuti prodotti ed abbandonati da terzi, senza che rilevi in senso contrario il contenzioso in atti con le ditte abusivamente operanti sul posto. Sotto questo profilo la motivazione è viziata da errore di diritto perché ricollega esplicitamente la buona all'effettivo stato dell'area acquistata, mentre la buona fede deve essere valutata in relazione non allo stato dell'area bensì alla attività criminosa, consistente nella condotta commissiva di abbandono dei rifiuti.
 Sembra evidente che il tribunale del riesame sia caduto nell'errore di ritenere che il ricorrente, in quanto acquirente del terreno, avesse un obbligo giuridico di eliminare i rifiuti ivi depositati prima dell'acquisto o comunque depositati senza il suo concorso. Sulla esistenza di tale obbligo manca qualsiasi motivazione mentre lo stesso, come dianzi rilevato, non può farsi discendere dalle disposizioni legislative richiamate nella ordinanza impugnata. Un obbligo giuridico di eliminare i rifiuti in capo al proprietario del terreno che non abbia concorso con gli autori materiali dell'abbandono, infatti, può sorgere solo a seguito di una ordinanza comunale che gli ordini la rimozione dei rifiuti stessi e lo sgombero dell'area nei limiti e nelle modalità previste dalla legge.
 L'ordinanza impugnata, inoltre, ha ritenuto che la intenzione del ricorrente di procedere alla bonifica dell'area, dimostrata attivandosi mediante la presentazione di un progetto di recupero ambientale del sito, sarebbe irrilevante a fini della valutazione del periculum in mora perché il detto piano di bonifica non è stato ancora autorizzato.
Anche questa affermazione è frutto di un errore di diritto perché si basa sull'idea che il periculum in mora sia costituito dalla possibilità che il ricorrente non sgombri l'area dai rifiuti ivi esistenti. Al contrario, nella specie, stante il reato contestato, il periculum in mora che deve essere presente consiste nella concreta ed attuale possibilità che il ricorrente continui a reiterare l'attività criminosa contestata, ossia che continui ad abbandonare in modo incontrollato rifiuti sul terreno, e non già nella possibilità che non tolga i rifiuti esistenti, non avendone allo stato l'obbligo.
Per completezza deve osservarsi che l'ordinanza impugnata sembrerebbe anche accennare ad un sequestro finalizzato ad una confisca obbligatoria del sito.
Sul punto la motivazione è assolutamente mancante perché la confisca può essere disposta solo per il reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva di cui al comma 3 dell'art. 256, reato che non solo non risulta contestato ma che sulla esistenza del cui fumus manca qualsiasi motivazione.
Va invero ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, che per potersi configurare il più grave reato di realizzazione di una discarica senza autorizzazione occorre l'allestimento di un'area con l'effettuazione di opere, quali spianamento del terreno, apertura di accessi, sistemazione, perimetrazione o recinzione, mentre per potersi configurare la diversa ipotesi di gestione di una discarica non autorizzata occorre che sussista una organizzazione, anche se rudimentale, di persone e cose diretta al funzionamento della medesima (Sez. F., 2.8.2007, n. 33252, Setzu, m. 237582; Sez. III, 2 luglio 2004, Pastorino, m. 229.624; Sez. III, 11.4.1997, n. 4013, Vasco, m. 207613).
L'ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al tribunale di Napoli per nuovo esame.
p. q. m.
la Corte Suprema di Cassazione  annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Napoli per nuovo esame.
 Roma, 21 ottobre 2010.
 DEPOSITATA IN CANCELLERIA il 22 Nov. 2010








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